Deroga al riposo domenicale e cumulo tra riposo giornaliero e riposo settimanale venerdì, Ott 12 2007 

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Min. lavoro note 11.10.2007, nn. 29 e 30.

Con la nota n. 29 dell’11 ottobre 2007 il Ministero del lavoro e della previdenza sociale afferma che i casi che giustificano una deroga alla regola della coincidenza del riposo settimanale con la domenica non sono sufficienti a consentire una deroga alla periodicità del riposo settimanale secondo lo schema dei sei giorni lavorativi seguiti da uno di riposo.

Tale possibilità è prevista solo in presenza di interessi apprezzabili, nel rispetto della cadenza di un giorno di riposo ogni sei di lavoro, e a condizione che non si superino i limiti di ragionevolezza, con particolare riguardo alla tutela della salute e sicurezza dei lavoratori.
Con successiva risposta ad istanza di interpello n. 30 dell’11 ottobre 2007 il Ministero del lavoro e della previdenza sociale ha affrontato la questione del cumulo tra riposo giornaliero e riposo settimanale.
Non può essere esteso al periodo di 35 ore il vincolo della consecutività tra riposo giornaliero e riposo settimanale applicabile al singolo riposo settimanale di 24 ore.
E’ possibile cioè derogare al criterio della consecutività delle 35 ore di riposo come cumulo di quello giornaliero e di quello settimanale, sia nel caso di attività a turni che in quelle frazionate, nonché in base a quanto previsto dai contratti collettivi.

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Risoluzione di diritto del rapporto di lavoro a seguito condanna venerdì, Ott 12 2007 

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Con sentenza del 26 settembre 2007, n. 20159, la suprema Corte di Cassazione ha giudicato eccessivo il licenziamento in presenza di sentenza penale di condanna, emessa in primo grado, anche se questa sarebbe sufficiente di per sè a determinare la lesione del vincolo fiduciario idonea a giustificare il recesso.

Per la Corte di Cassazione le motivazioni dell’azienda non meritano accoglimento in quanto il giudizio sulla correttezza del licenziamento spetta ai giudici di merito.

Fatto e diritto
Un responsabile del magazzino ricambi era stato licenziato per avere ordinato il prelievo di materiale con avviamento all’esterno di merce senza riscontri contabili nelle giacenze di deposito e, quindi, senza l’osservanza delle prescritte procedure.
Il licenziamento veniva annullato del Pretore di Roma, perché ritenuto sproporzionato rispetto alla mancanza e la relativa statuizione passava in giudicato a seguito della sentenza della stessa Corte di Cassazione.
La società, dunque, aveva provveduto a reintegrare il dipendente nel posto di lavoro in ottemperanza alla sentenza di primo grado, ma lo aveva licenziato nuovamente, allorché il procedimento penale – iniziato a seguito di denuncia querela della società nei confronti del dipendente per appropriazione indebita di 189 pezzi di ricambio per un valore di oltre sedici milioni di lire – si era concluso, in primo grado, con una sentenza di condanna a pena detentiva e pecuniaria.
Il licenziamento terminava, in primo grado, con la pronuncia di rigetto, la quale veniva riformata dal locale Tribunale in sede di appello, che, con la sentenza non definitiva dichiarava illegittimo il recesso e disponeva la reintegrazione del dipendente nel posto di lavoro con le pronunzie consequenziali, disponendo la prosecuzione del giudizio sulla domanda di risarcimento del danno biologico richiesto dal dipendente.
L’intervento del Tribunale
Il Tribunale aveva rilevato preliminarmente che dalla lettera di licenziamento emergeva che questo era stato intimato esclusivamente sulla base dell’art. 153 del CCNL, il quale dispone “la risoluzione di diritto e con gli effetti del licenziamento in tronco, qualora la condanna risulti motivata da reato commesso nei riguardi del datore di lavoro o in servizio”. Il tribunale, analizzando il testo contrattuale, aveva stabilito che detta disposizione prevede il passaggio in giudicato della sentenza penale e che la mera emanazione di sentenza di condanna in primo grado non era idonea a giustificare il recesso.
Le perizie tecniche
Frattanto, espletate due consulenze mediche sulla persona del dipendente, lo stesso Tribunale di Roma rigettava la domanda di condanna al risarcimento del danno biologico presentata dal dipendente.
Infatti il Tribunale negava, sulla scorta delle perizie tecniche, il nesso di causalità tra le vicende che avevano caratterizzato il rapporto di lavoro e lo stato gravemente depressivo del dipendente stesso che era dovuto allo squilibrio di una situazione patologica preesistente.

La decisione della Corte di Cassazione
La Cassazione ha rigettato sia il ricorso del dipendente che quello dell’azienda.
Il ricorso dell’azienda
Secondo la Cassazione, l’azienda aveva dedotto le argomentazioni tramite i consulenti, ma il giudizio sulla correttezza del licenziamento spetta ai giudici di merito: infatti, per la Cassazione, risulta incongruo il licenziamento in presenza di sentenza penale di condanna, emessa in primo grado, anche se, dimostrata la giusta causa, sarebbe sufficiente a determinare la lesione del vincolo fiduciario idonea a giustificare il recesso. La Corte, inoltre, ha chiarito che i consulenti, in luogo di procedere all’individuazione del dato clinico e verificare resistenza del nesso di causalità con gli accadimenti dedotti, avrebbero reiteratamente dimostrato di voler valutare e giudicare le vicende lavorative, avendo fatto riferimento alla “supposta persecuzione del periziando da parte dell’azienda”, il che non rientrava però nell’incarico di loro competenza, dovendo i comportamenti aziendali essere verificati solo dal giudice.
Inoltre i disturbi della personalità, riscontrati dai consulenti come antecedenti ai fatti, avrebbero dovuto manifestarsi già nella giovinezza, mentre prima delle vicende di causa il dipendente sarebbe stato esente da disturbi psichici, essendo peraltro indubbia la capacità disturbante e destabilizzante delle vicende costituite da due licenziamenti e dai procedimenti penali che avevano visto il dipendente stesso imputato.
Per la Cassazione, infine, il Tribunale avrebbe dovuto accertare la esistenza di un comportamento illegittimo e persecutorio da parte del datore di lavoro e non già rimetterlo ai consulenti;
Il ricorso del dipendente
La Cassazione ha stabilito che non è vero né che i giudici di merito avevano omesso di accertare il carattere illegittimo e persecutorio degli atti posti in essere dal datore di lavoro, né che avessero rimesso la relativa verifica ai consulenti. Al contrario, la Corte ha stabilito che la illegittimità del comportamento datoriale è stata implicitamente presupposta nel momento in cui è stata ammessa la consulenza medica, intesa ad accertare il nesso tra il danno allegato dal lavoratore e quel comportamento, giacché, che ove di questo fosse stato negata la illegittimità, la consulenza sarebbe stata del tutto inutile.

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Il “crumiraggio interno” è lecito se l’impiego di dipendenti rimasti in servizio non comporta violazione dei loro diritti soggettivi venerdì, Ott 12 2007 

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Il “crumiraggio interno” è lecito se l’impiego di dipendenti rimasti in servizio non comporta violazione dei loro diritti soggettivi – Bilanciamento fra diritto di sciopero e libertà di iniziativa economica.

L’azienda può sostituire lavoratori assunti per sciopero con altri dipendenti in servizio, ove ciò non comporti l’impiego dei sostituti in mansioni qualitativamente inferiori a quelle previste per le loro qualifiche.

La giurisprudenza della Suprema Corte ha più volte riconosciuto, con riguardo a diverse fattispecie di c.d. “crumiraggio interno”, la legittimità della utilizzazione da parte del datore di lavoro di ogni mezzo legale che, senza impedire od ostacolare l’esercizio del diritto di sciopero, siano diretti a contenere gli effetti negativi della sospensione dell’attività (Cass. 16 novembre 1987 n. 8401, 29 novembre 1991 n. 12822, 4 luglio 2002 n. 9709). In questa linea, più recentemente, Cass. 9 maggio 2006 n. 10624 ha affermato il diritto del datore di lavoro di continuare a svolgere la propria attività in occasione dello sciopero, purché ciò avvenga nei limiti normativamente previsti; l’affidamento delle mansioni svolte da lavoratori in sciopero ad altri dipendenti diviene così illegittimo ove avvenga in violazione di una norma di legge o di una norma collettiva (nella specie esaminata, con l’assegnazione di lavoratori – assunti con contratti a tempo determinato e parziale per svolgere prestazioni nei giorni di sabato e domenica – ad attività in altri giorni della settimana per sostituire i dipendenti in sciopero, o con lo svolgimento, allo stesso scopo, di lavoro supplementare da parte di dipendenti con contratto a tempo determinato, in contrasto con norma di legge).

 L’opinione prevalente, che nega d’altro canto la legittimità del ricorso a nuove assunzioni per sopperire all’astensione dal lavoro degli aderenti allo sciopero (c.d. crumiraggio esterno) trova oggi precisi riferimenti normativi in diverse disposizioni speciali relativi al contratto a termine (art. 3, lett. a, d.lgs. 6 settembre 2001 n. 368), al contratto di somministrazione e al contratto di lavoro intermittente (art. 20, comma 5 lett. a, art. 34 co. 3 lett. a, d.lgsl 10 settembre 2003 n. 276).

 In questa prospettiva, si deve affermare – seguendo l’indirizzo espresso da Cass. 10624/2006 cit. – che nella logica del bilanciamento del diritto di sciopero e del diritto di libera iniziativa economica dell’imprenditore, entrambi garantiti da norme costituzionali, il primo non può dirsi leso quando il secondo sia esercitato, per limitare gli effetti negativi dell’astensione dal lavoro sull’attività economica dell’azienda, affidando ad altri dipendenti i compiti degli addetti aderenti all’agitazione, senza che risultino violate norme poste a tutela di situazioni soggettive dei lavoratori (Cassazione Sezione Lavoro n. 20164 del 26 settembre 2007, Pres. Ravagnani, Rel. Balletti).

Da Legge e Giustizia    la notizia qui

Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro: i benefici venerdì, Ott 12 2007 

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(Ministro del Lavoro, Decreto 2.7.2007 – G.U. 8.10.2007 n. 235).

Pubblicato in gazzetta ufficiale il Decreto del Ministro del Lavoro che istituisce il “Fondo di sostegno per le famiglie delle vittime di gravi infortuni sul lavoro”.
Nel testo è presente una tabella descrittiva degli importi da erogarsi a tale titolo e da applicarsi in relazione al numero dei familiari superstiti secondo i criteri contenuti nell’articolo 2 del decreto medesimo.

 L’importo “una tantum” da corrispondere agli aventi diritto,secondo la tabella di cui all’articolo 1 è decurtato del 50% qualora venga accertato che il nucleo familiare, nell’anno precedente alla richiesta possegga un reddito superiore a 50.000 euro.

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I danni esistenziali vanno provati venerdì, Ott 12 2007 

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Cassazione civile, terza sezione civile, sentenza dell’8 ottobre 2007, n. 20987.

La Corte di Cassazione ha rigettato il ricorso di una famiglia per la liquidazione del danno esistenziale per la perdita della figlia di sette anni a causa di cure mediche sbagliate.

Applicando il principio di diritto, formulato recentemente dalle sezioni unite con sentenza n. 6572/06, diramando a loro volta un contrasto giurisprudenziale, la terza sezione civile ha confermato che il danno esistenziale va provato da chi chiede il risarcimento.

Ma la corte è andata anche oltre, invitando i difensori, in casi delicatissimi come questi, ad apprestare una “difesa adeguata e domande sostenute, oltre che da validissimi riferimenti costituzionali, da una serie dettagliata di circostanze che illustrano la vita della famiglia e il dolore e le perdite, anche esistenziali, conseguenti a tale morte.”.

Contemporeamente, uguale monito è rivolto dagli stessi giudici al legislatore affinché intervenga con una modifica legislativa del testo dell’art. 2059 c.c. con l’espressa inclusione di fattispecie emergenti, sul modello del codice tedesco riformato nel 2002.

Da Il Sole 24 Ore   la notizia qui